I manoscritti letterari di Fernand Brisset

Nel corso del Trecento si assiste ad una modificazione radicale del rapporto fra autore e testo. L’autore si rende partecipe della produzione manuale del testo, dalla sua prima stesura, alle fasi di successiva composizione, finanche, in alcuni casi, alla sua trasmissione in forma manoscritta.

Uno dei protagonisti di questa rivoluzione è proprio Francesco Petrarca, che, citando lo storico e paleografo Armando Petrucci, sviluppò «una vera e propria religione dello scrivere e [che] scrisse e riscrisse di suo pugno molte delle sue opere». Si tratta di una pratica di autoscrittura, che trova la sua massima sublimazione dei Rerum vulgarium fragmenta, e che influenzerà la modalità di composizione dei testi letterari di gran parte delle generazioni successive, praticamente fino agli albori dell’età contemporanea.

Fernand Brisset aderisce in pieno a questa tradizione. I suoi manoscritti sono evidentemente il frutto di un processo di maturazione di un testo, lungo ed elaborato, che l’autore, sebbene si presenti in questo caso in veste di traduttore, dimostra di sentire ‘suo’ a pieno titolo. Il rapporto del Brisset con la scrittura, infatti, è caratterizzato da una partecipazione profonda al processo compositivo delle sue traduzioni: scrive le prime bozze su fogli di recupero o di bassa qualità, ne rielabora spesso una seconda versione occupandosi anche della fascicolazione e della rilegatura in volume, e giunge alla redazione di un’ultima versione pressoché identica a quello che sarà l’impaginato dell’edizione a stampa. In questo lavoro di costruzione materiale della propria opera, l’autore francese denuncia un’attenzione quasi maniacale al controllo delle varie fasi di elaborazione delle sue traduzioni: scrive, riscrive, corregge; guida il lettore/compositore tipografico con note e appunti; convalida il lavoro con l’apposizione della firma.